La Terapia della Gestalt, secondo me

Non è facile, in una breve presentazione come questa, riuscire a fornire un quadro sufficientemente chiaro di ciò che è stata ed è la cosiddetta Terapia della Gestalt. Mi pare tuttavia necessario tentare, con l’intenzione di sgomberare il campo da tanti malintesi e da tante approssimazioni che si diffondono nel comune sentire e si moltiplicano sul web, all’interno di forum e siti specializzati, o presunti tali.

La Gestalt d’altro canto, nella sua natura composita eppure mai superficialmente eclettica, si presta a questa confusione, cioè alla difficoltà di una definizione esatta e circoscritta. Ben lungi dall’essere un “calderone” dentro il quale qualcuno ha mischiato arbitrariamente ingredienti concettuali tra i più diversi, essa di fatto prende le mosse da un’operazione di sintesi creativa e rielaborativa – mai conclusa e sempre alimentata come processo vivo e dinamico – condotta da Friederick Salomon Perls e da sua moglie Lora Posner, a partire dalla metà del ‘900.
Numerosi sono gli orizzonti scientifici e filosofici da cui Perls ha attinto: innanzitutto la psicoanalisi freudiana entro la  quale il giovane Perls si è formato, giungendo poi a tracciare percorsi di ricerca differenti e più personali, già con la pubblicazione del suo primo libro “L’Io, la fame e l’aggressività”; c’è poi l’ambito sperimentale della Psicologia della Gestalt, che con gli studi di M. Wertheimer e K. Koffka esplorava il funzionamento attivo della percezione della realtà; la Teoria del Campo di K. Lewin, con il suo modello interpretativo dell’interazione individuo-ambiente; e l’analisi reichiana, a cui si sottopose lo stesso Perls, traendone spunti che lo orientarono a interventi sulla corazza muscolare e più in generale sulla dimensione corporea, dei soggetti da lui trattati.

E ancora l’approccio gestaltico di Perls dialoga con numerose altre correnti come quelle della Semantica generale di A. Korzybski, del pensiero differenziale di S. Friedlander, dello Psicodramma di J. L. Moreno, della psicologia umanistica di A. Maslow e C. Rogers; nonché recupera coordinate concettuali ed etiche dalle filosofie orientali dello Zen (radicamento nel presente) e del Tao (polarità dinamica dello Yin – Yang).

 

Con una elencazione come questa, che certamente rimane superficiale e incompleta, si comprende una volta di più la difficoltà di racchiudere la Terapia della Gestalt in una formulazione univoca e sintetica. A me basta, caro visitatore, trasmetterti una sensazione anche vaga della complessità e della ricchezza dell’approccio teorico e metodologico che ho scelto di praticare.

Proverò comunque ad addentrarmi un po’ nel pensiero perlsiano e gestaltico, focalizzando una sequenza di 3 nuclei tematici che hanno una particolare rilevanza nella concretezza della situazione terapeutica.

Tra i percorsi possibili lungo i quali accompagnare il paziente, si tratta innanzitutto di individuare quello più pregnante per lui in quel dato momento, cioè quello più urgente e significativo. Qualunque sia il vissuto espresso – un pensiero, un ricordo, un’emozione, una sensazione corporea, un’immagine onirica – occorre prima di ogni altra cosa configurarlo, cioè dare ad esso la tridimensionalità di una gestalt emergente. Ciò significa cogliervi la forma e la struttura di una figura che si staglia su uno sfondo, una figura messa a fuoco e fortemente energizzata sulla quale poter concentrare l’attenzione e l’intervento. E’ il processo morfogenetico, quello della cosiddetta gestaltung: qual è la cosa in gioco in questo momento? cosa vuole esprimersi, organizzarsi, emergere con una sua chiara definizione da un orizzonte fluido e indifferenziato?

Possiamo procedere in questo modo poiché la terapia gestaltica si affida ad una visione olistica e olografica dell’essere umano e del suo psichismo, in base alla quale la totalità (holos) è sempre inscritta in ogni suo particolare (gramma). Le scienze naturali hanno ampiamente dimostrato che dall’analisi di ogni singola cellula si può risalire all’identità complessiva della persona, poiché il suo nucleo contiene il codice genetico dell’intero organismo; analogamente il pensiero gestaltico afferma che ogni fenomeno attraverso il quale ci manifestiamo (parola, gesto, stato d’animo) ci esprime completamente, cioè riassume in sé la nostra personalità, la complessità strutturata, dinamica e spesso conflittuale del nostro modo di essere al mondo.

L’obiettivo di una terapia gestaltica è la riappropriazione di uno stato di “naturalezza”, più tecnicamente definito come “autoregolazione organismica”: il percorso terapeutico deve condurre il paziente a riattivare la funzione dell’autorealizzazione, cioè quella tendenza naturale dei viventi ad una crescita intesa come attualizzazione delle proprie potenzialità. Tuttavia, non è ingenuamente deculturalizzandoci che viviamo naturalmente (come nel mito del “buon selvaggio” di J.J. Rousseau), ma guardando avanti, scoprendo e superando la nostra struttura nevrotica.
L’innocenza originale, o più semplicemente una condizione psicologica salubre e soddisfacente, può essere in qualche modo riguadagnata nel viaggio terapeutico ed umano.
Come? Riappropriandoci delle parti scisse del nostro sé, quelle che abbiamo proiettato e da cui ci difendiamo perché insostenibili; prendendo coscienza dei meccanismi di auto-interruzione; sciogliendo i blocchi che inibiscono la crescita e l’adattamento creativo. In altri termini, rimuovendo tutto ciò che impedisce al processo auto-regolativo di svolgere il suo compito evolutivo.
In ultima analisi, si tratta di giungere a quella consapevolezza che la terapia gestaltica definisce con il termine awareness, per evidenziarne l’aspetto olistico, dunque non solo intellettivo, ma anche emozionale, immaginale, e senso-percettivo. L’approdo a questo tipo di consapevolezza deve consentire all’individuo di superare il suo stato di cronica insoddisfazione, dovuta all’incapacità tutta umana di appartenere davvero al mondo della naturalezza. Riflettiamo.
Se l’uomo, con strategie estreme di controllo o alienazione, non riesce ad essere ciò che egli è realmente, dal canto suo un fiore non si sforza mai di essere nient’altro che un fiore, quell’unico, irripetibile, bellissimo fiore.